Spoiler: un sacco di bar(etto) e tante magliette di GameLoop. Ah sì, anche dei giochi!


“Ok foto, finiamo pure ‘sto Spritz, ma poi ci facciamo un altro giro dentro… no?” (Foto by @encelo)

La cronaca

Premessa: a Bologna ci sono cresciuto, dalla materna fino all’università, e alla gente dico che è “la città più bella del mondo”. Non so se è vero perché non sono stato in tutte le città del mondo, ma di sicuro non sono l’unico che si emoziona nel fare il tratto Due Torri – Piazza Santo Stefano al tramonto, con l’arancione che spunta da dietro la Basilica.

Per questo, avere un evento come Svilupparty proprio a Bologna, forse l’evento più bello del settore in Italia per “overall score”, ovvero se si conta il (non) prezzo, l’atmosfera, la location, i giochi, i talk e tutto il resto in un solo numero, per me è una gioia vera e quindi il primo obiettivo di questo articolo è rivolgere un enorme ringraziamento ad ogni persona che anche solo in minima parte contribuisce ad organizzarlo. Inoltre, da qualche anno cerco di esserci ad ogni costo, oltre che per incontrare i nickname/nomi che leggo più o meno spesso su GameLoop, in chat, forum e gruppo Facebook. Quest’anno “ad ogni costo” ha significato arrivare in aereo il venerdì alle 24 e riprendere l’aereo alle 6:45 di lunedì mattina per andare dritto a lavoro, con le immancabili pochissime ore di sonno in mezzo.
Ora che mi sono ripreso, posso dire che ovviamente ne è valsa la pena.


Si può dire? Per me la Cineteca di Bologna è bellissima

Il mio arrivo in Cineteca è nella tarda mattinata di sabato dopo aver parcheggiato velocemente (forse troppo) a Porta Lame, e subito mi stupisco di vedere in lontananza magliette di GameLoop addosso a persone che non ho mai visto prima. Riesco a raggiungere encelo al telefono che mi spiega che lui ed altri “sono al baretto”: in quel momento non potevo ovviamente sapere che “il baretto” sarebbe stata una sorta di casa per quei due giorni, e che dopo le 11 di mattina ogni cocktail sarebbe stato ufficialmente consentito. Il “baretto” ufficiale è quello davanti alla cineteca, è all’aperto e c’è un bel sole, quindi insomma arrivo, mi siedo e decido che poteva andare anche molto peggio.

Incontro, tra gli altri, @ManHunter, Giorgio, ribecco Giulio (M.) e il suo amico Andrea, il grande @Corralx che subito inaugura la stagione dei cocktail, @Fahien con Erica, @xeeynamo, @pellicus, @Helba e altri. Molti altri. Perché se lo Svilupparty procede liscio tra il casino, i giochi e il Tuggurt Verdolino, le sfide a Circle of Sumo e le chiacchierate, quando si avvicina l’ora di cena mi accorgo che siamo uno, due, tre, quattro e insomma ad una potenziale cena di GameLoop sono pronte a venire quasi 30 persone! Sono le 18:30 e comincio a chiamare questo o quel ristorante che si rivela avere solo 1, 2 o 4 posti per la serata. Tragedia. Panico. Ci si divide in due gruppi per agevolare la questione (mi spiace Luciano & company!!!) ma comunque non basta, tutti ormai chiamano senza risultati. Alla fine è Andrea che trova, nessuno sa come, un ristorante con 16 posti, quando già ci si stava disperando. È il trionfo. Si parte per un rapido Spritz con il Cynar e si arriva, in 17, al ristorante.


“E chi ci credeva più che avremmo trovato un tavolo?” (Foto by @davcri)

Parentesi cena: l’anno scorso, se non ricordo male, il venerdì/sabato dello Svilupparty saremmo stati in otto a cena: stavamo tutti su una panca sola dell’Osteria dell’Orsa. Quest’anno, potenzialmente, eravamo quasi 30.
Quando siamo partiti con la creazione di GameLoop a febbraio 2017, era chiaro che uno degli obiettivi fosse di diventare la casa di tutti quelli che vogliono parlare di sviluppo di videogiochi in Italia e/o in italiano, sotto ogni aspetto, a patto di farlo seriamente e rispettosamente. Sembra un obiettivo banale, ma chi conosce un po’ il contesto sa che spesso non lo è ancora oggi. Però, personalmente, vedere la lunga tavolata sabato sera mi ha fatto pensare che, dopotutto, potremmo essere sulla strada giusta. Le facce che vedete in questa (ed altre) foto sono di persone che vivono in diverse parti d’Italia e del mondo, e diverse anche tra loro, ma accomunate da qualcosa che per alcuni è un lavoro, o un hobby, o una passione, o un sogno, o forse tutte queste cose assieme. Il secondo obiettivo di questo articolo è quindi ringraziarle tutte per essere venute.

Dopo il dessert e i liquori ci si è avventurati per una affollatissima via del Pratello, in cui trovare un tavolo è stato di nuovo un’impresa, ma potevano così tante menti geniali non trovare una soluzione per continuare a bere? Credo si sia “sbaraccato” piuttosto dopo la chiusura ufficiale dell’1:30, con l’oste che si era piazzata in piedi proprio dietro di noi e credo sia stato Manuele il primo a notarla, ma la dipartita non è comunque stata proprio rapida. 😃

Inevitabilmente, la domenica è stata un po’ più “chilled out”, di sicuro abbiamo felicemente pagato una buona parte della retta universitaria dei figli/e dei gestori del baretto, ma Svilupparty era forse anche meno affollato, quindi ci siamo fatti un bel giro dei giochi presenti. Ivan si è poi messo più volte sul palchetto, forse alle 17, forse di nuovo alle 18, o ancora alle 19, per spiegare che “Svilupparty è finito! È ora di smontare!” ma nessuno ci voleva credere veramente. Pian piano, sono partiti i giri di saluti, le ultime promesse, gli ultimi piani: io stesso non ho mangiato fuori con gli altri per provare ad evitare di andare a letto alle 3.

So che con molti ci vedremo ancora, anche (molto) prima del prossimo anno, e che altri invece da ora in poi li leggerò su internet potendo magicamente assegnare ai caratteri corpi, voci ed espressioni. Alcuni, lo ammetto, non so se li rivedrò più: questi eventi alla fine sono così, è inevitabile, non ci si tiene sempre in contatto. Ma tenete queste facce, questi nickname e questi nomi bene impressi nella memoria: può darsi che li incontrerete di nuovo su IGN, su Steam, alle presentazioni della GDC, a guidare le divisioni di aziende Fortune 100, o accanto al gioco clamoroso che avete appena scoperto su Warp Door. O forse non li rincontrerete più da nessuna parte, nessuno lo può sapere. Quale sia l’augurio mio e di GameLoop, in questo senso, è chiaro, e scontato.

Scusa, ma i giochi?

Ah sì, quasi mi scordavo dei giochi!

Per chi non ci fosse mai stato, Svilupparty è pieno di giochi in diverse fasi di sviluppo da provare (chi lo avrebbe mai detto eh?), ma proprio pieno, cioè con pure le stanzette laterali 3×2 che hanno fino a tre giochi, a volte. Ce ne sono tanti che meriterebbero uno spazio, personalmente ho deciso di soffermarmi solo su un paio che mi hanno impressionato per motivi diversi. A voi.

Monica è sostanzialmente una graphic novel interattiva che ci porta all’interno di un parrucchiere per donne nell’Italia del 1968-69, sviluppata da un gruppo di studenti della Scuola di Cinema Luchino Visconti. Giovanni mi spiega che sviluppare un videogioco come uno dei progetti del corso è da qualche anno un’opzione sul piatto, anche se non troppo gettonata, e lui ed altri ad un certo punto ci stavano pensando ma erano un po’ insicuri sul lato “tecnico”, finché una ragazza del gruppo ha smesso di indugiare e ha imparato ‘sto diavolo di Python e subito dopo Ren’Py. Tempo tre mesi ed erano belli oliati che producevano, e questa è secondo me una bella backstory per un gioco che tratta soprattutto di liberazione dagli schemi tipici della società.

Lo stile grafico è un misto tra pop art e nouvelle vague, i personaggi sono disegnati ma hanno facce fotografate, e l’apparizione di un’aura fumettosa dietro le sagome viene usata per indicare chi parla durante i dialoghi: questi ultimi sono ovviamente la parte più importante del gameplay, anche se ci sono piccoli elementi da punta e clicca gestionale (di un parrucchiere!), e gli inevitabili finali multipli. Come sarà chiaro a molti, non è facile creare un gioco godibile, di lunghezza non esagerata, che rappresenti anche solo una parte della complessità del tema proposto: dei “compromessi” (storici?) vanno fatti, ma anche se i dialoghi di “Monica” sono semplici, non sono per lo meno “semplicisti”. Uno dei primi eventi importanti è l’entrata nel salone di un giovane sessantottino “capellone” che chiede “una spuntatina da qualcuno che sappia farci con i capelli lunghi”, una cosa piuttosto inusuale per un salone pieno di comari. Nei panni di Monica ho cercato di flirtare quanto più possibile con il ragazzo perché volevo capire se il gioco mi avrebbe permesso di portarmelo a letto e vedere così un po’ di santa nudità. Non ho potuto giocarlo fino alla fine, ma Giovanni non ha escluso che questo finale esista. Mica scemo, il Giovanni, che facendo così si è assicurato un download appena il gioco uscirà su itch.io.

Prima (e unica) digressione: a me piacciono i giochi violenti. Non la violenza “a misura di bambino” da Hollywood di Call of Duty, ma quella estrema, palesemente irreale proprio perché esagerata, o impossibile, di Hotline Miami. Non la violenza “delle meccaniche” fatte su misura per renderti un drogato di loot box o di acquisti impulsivi in-game, ma quella esplicita, delle immagini. Mi piace pensare che questo tipo di violenza multimediale ci sia utile per metterci alla prova in un ambiente controllato, per sperimentare pulsioni o sentimenti anche “rischiosi”, per farci domande che altrimenti non potremmo farci, e così conoscerci meglio, perché una società non-violenta è un qualcosa che “bisogna saper scegliere in tempo, invece di arrivarci per contrarietà”.

Ed è anche per questo che mi è piaciuto Exit Limbo, un gioco che come dicevo ad uno degli sviluppatori “sarà orgoglioso del suo PEGI 18+”. Il titolo è un classico beat’em up a scorrimento con fondali 3D e dei rinoceronti in 2D pre-rendered parecchio incazzati come protagonisti, i nemici sono altre pecore o topi zombie, o altri animali passati dalla savana ai giubotti di pelle. Caratteristico anche il tone mapping che genera colori simili alle scene nelle fogne nei film anni ’90 delle Tartarughe Ninja. E c’è il sangue, ad ogni pressione di un tasto, e le mosse speciali con ancora più sangue e i quick time event per quando si ammazzano i boss ancora più violenti. Il gioco aveva solo un livello che però era assolutamente godibile, con gli oggetti lanciabili, qualche mossa avanzata interessante e il friendly fire rigorosamente “on”.

Personalmente, lavorerei ancora un po’ sulle hitbox, e c’è da sistemare l’AI dei nemici (in alcuni casi), ma è chiaro che si parla così perché il prodotto è già di qualità, e starebbe benissimo nel portfolio PC di un publisher tipo Devolver Digital o Team 17, come più di una persona ha fatto notare. La speranza è che i ragazzi/e non si perdano e facciano di tutto per contattare i suddetti e arrivare dove meritano. A loro va un grande in bocca al rinoceronte incazzato.

C’è quel sentimento, nell’andare ad un evento come Svilupparty, simile a quella speranza che quasi tutti hanno avuto nell’andare tra mercatini delle pulci sognando di trovare, che so, un numero 1 di Spider-Man, o un Black Lotus, che però in un evento di videogiochi diventa la speranza di trovare tra i tanti giochi in via di sviluppo qualcosa di assolutamente originale, bellissimo e inaspettato. Scoprire Fly Punch Boom è stato qualcosa di molto vicino a questa fantasia: portato avanti da un solo sviluppatore, che sostiene che questo sia il suo primo gioco (affermazioni a cui credo poco e che dovrò verificare!), a prima vista è un misto tra i cartoni di Cartoon Network, i manga e, beh, Dragon Ball!

Alla prima partita sembra una sorta di Super Smash Bros semplificato: si vola per la mappa, si “dasha” verso il nemico per provare a beccarlo da dietro, comunque lo si becchi parte un quick time event in cui entrambi devono premere i tasti al momento giusto e/o mashare i bottoni. La scelta del bottone diversifica ulteriormente il tipo di attacco e c’è una meccanica “sasso/carta/forbice”. Chi vince il QTE fa danno e potenzialmente pusha l’avversario, chi finisce troppo vicino ad alcune trappole a schermo, tipo ostriche robotiche, deve fare un tiro salvezza sempre con un timed button press, la cui difficoltà aumenta al diminuire della vita, che nel caso fallisca porterà ad una delle varie assurde animazioni di morte, lunghe almeno 15 secondi. Senza motivo. La grafica è assurda e già molto curata. Il gameplay, apparentemente semplice, è complicato dalla presenza di super mosse, da vari oggetti nell’arena da utilizzare come armi, come difese o per riempire la barra per le super mosse, dai personaggi con diverse caratteristiche, dall’uso accorto del dash… Insomma, ce n’è abbastanza per renderlo potenzialmente un gioco semplice, ma comunque skill-based e profondo.

Ho sentito Gabriele parlare di potenziare le sfide con più di due giocatori, che è un bene, ma anche di strane campagne single-player, con AI ecc, perché “i picchiaduro che fanno bene al giorno d’oggi sono soprattutto quelli con un buon single player”… Mi permetto un consiglio: lascia stare cosa fanno Injustice o Mortal Kombat. Tu hai già un tuo stile e un gioco che funziona, perfeziona quello che lo rende bello, lascia stare il resto, portalo in giro più che puoi e poi mettilo sullo store. Che io ho già il portafoglio in mano, e di sicuro non sono il solo.

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